Nell'Italia dei laureati che non sanno scrivere




L'altro giorno mi sono messa a spulciare in un armadio che non mettevo in ordine da anni (lo so, sono un pessimo soggetto), e ho trovato un articolo di giornale che risale a quando ancora andavo alle superiori, che però non ha perso il suo fascino e il suo sapore estremamente attuale. Parla di laureati, atenei, ma più precisamente di cultura, o meglio dell'assenza del desiderio di farsi una cultura. Me lo sono ricopiato e ho deciso di condividerlo con voi; leggendolo vi troverete a sorridere in numerosi passaggi, tuttavia le riflessioni sulla qualità dell'istruzione italiana -riflessioni fondamentali che troppo spesso perdiamo di vista- non mancano. 



tratto da
LA REPUBBLICA
(febbraio 2008)


Dirimere un'ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque. A dir la verità, anche solo comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque. 
<<Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente nei giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache>>. 
Luca Serianni, linguista all'università di Roma 3, ne fece esperienza diretta un giorno nell'ambulatorio di un dentista cui s'era rivolto per un'urgenza. 
<<Con le mie lastrine in mano chiamò al telefono un collega  per avere un parere: "Senti caro, aiutami a diramare un dubbio...">>. 
E il professore sudò freddo: <<Un medico che non sa maneggiare le parole è un medico che non legge, quindi non si aggiorna, quindi forse non sa maneggiare neanche un trapano>>. 
Analfabeti con la laurea. Non è un paradosso. E nessuno s'offenda: ci sono riscontri scientifici. Il report 2006 del ramo italiano dell'indagine internazionale All-Ocse (Adult Licteracy and Life Skill) coordinato dalla pedagogista Vittoria Gallina, non lascia spazio a dubbi: due laureati su cento non riescono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta (il bugiardino di un medicinale, le istruzioni di un elettrodomestico). 



NELL'ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE

E non sanno produrre un testo minimamente complesso (una relazione, un referto medico, ma anche una banale lettera al capo condominio). Che sia comprensibile e corretto. Una minoranza? Sì, un laureato italiano su due, per fortuna, raggiunge il quinto e massimo livello. Ma è una minoranza terribilmente cospicua, anche se si maschera bene. Negli Usa tre anni fa fu uno shock scoprire che i graduate fermi al livello base sono il 14%. Da noi il buco nero si manifesta a tratti, in modo clamoroso, come un mese fa a Roma, al termine dell'ultimo dei concorsi per l'accesso alla magistratura, presa d'assalto da quattromila candidati in gara per 380 posti. Nonostante questo, cinquantotto posti sono rimasti scoperti: 3700 candidati, tutti ovviamente laureati (magari anche più) hanno presentato prove irricevibili. Sul piano puramente linguistico. 
<<Per pudore vi risparmio le indicibili citazioni>> commentò uno dei commissari d'esame, il giudice di corte d'appello Matteo Frasca. Il campanello d'allarme dovrebbe suonare forte. Non si tratta più di scandalizzarsi (e divertirsi) per gli strafalcioni nozionistici degli studenti. No, epidosi come il concorso di Roma mettono a nudo il grando zero del problema. Stiamo parlando di chi è senza parole. Di chi dopo cinque (sei, sette) anni di studio universitario non è riuscito a mettere nella cassetta degli attrezzi le chiavi inglesi del sapere: grammatica, ortografia, vocabolario. Analfabetismo; anche questa parola sembrava scomparsa dal lessico, ma per esaurimento di funzione, consegnata ai ricordi in bianco e nero del maestro Manzi. Falsa impressione, perché gli italiani che non sanno leggere né scrivere se ne contano ancora, al censimento 2001,  quasi 800.000. 
Se aggiungiamo gli italiani senza neanche un pezzo di carta, neppure la licenza elementare, arriviamo a sei milioni, con allarmante quote di uno su dieci nelle regioni meridionali. 
Nobilmente contrastato ai livelli più bassi della scala del sapere, però ecco che l'analfabetismo riappare dove meno te lo aspetti: ai vertici. Gli studiosi, è vero, preferiscono chiamarlo illetteratismo: non si tratta infatti dell'incapacità brutale di compitare l'Abc, di decifrare una singola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficacemente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrittura. Ma non è proprio questo l'analfabetismo più minaccioso del terzo millennio?. Nadine Gordimer, per il bene della sua Africa, è di questo analfabetismo relativo che ha più paura: <<saper leggere la scrittura di un cartellone pubblicitario e le nuvolette dei fumetti, ma non saper comprendere il lessico di un poema, questa non è alfabetizzazione.>>
Siamo sicuri che l'Italia di tante sia messa meglio del Sud Africa? 
Proprio no, per niente sicuri. 
Quanti del nostro già magro 8,8% di laureati (la media dei paesi OCSE è del 15%), leggono ogni giorno qualcosa più delle reclame e delle didascalie della tv?
Quanti invece sono prigionieri più o meno consapevoli di quella che Italo Calvino chiamò l'anti-lungua? 
Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. 
Sette laureati su 100 non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all'ISTAT: mancano quelli che se ne vergognano). 

Altri sette leggono solo l'indispensabile per il lavoro: e siamo già vicino al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di 100 libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. 
Uno su cinque non ha in casa una enciclopedia. 
Quasi nessuno (73%) va in biblioteca, e quando ci va raramente prende i libri in prestito. <<Manca il tempo>>, <<Sono troppo stanco>>, le scuse più comuni. 
Ma ci sono anche quelli che non accampano giustificazioni imbarazzate, anzi rivendicano il loro illetteratismo come atteggiamento moderno e aggiornato: <<leggere oggi non serve>>, <<è un medium lento>>, <<preferisco altre forme di comunicazione sociale>>. 
<<La società sprintata>>, come la chiama il pedagogista Franco Frabboni, preside di Scienze della formazione a Bologna, uno degli autori della riforma universitaria, è arrivata negli atenei. E gli atenei la assecondano: <<la trasmissione del sapere universitario è regredita dalla scrittura all'oralità>>, spiega. 
Nelle aule della nostra istruzione superiore, il grado di padronanza della lingua italiana non è mai messo alla prova. Persino l'arte dell'argomentazione orale, ponte fra i due universi semantici,  è svanita, racconta Fabbroni: <<professori sempre più incerti fanno lezione con diapositive, seguendo una traccia fissa. Ai laureandi si lascia esporre la tesi con presentazioni power point. I 'test oggettivi' d'ingresso sono crocette su questionari>>. 
La competenza linguistica non è considerata un pre-requisito indispensabile: <<devi guadagnarti cinque crediti per la lingua straniera, e cinque per l'informatica, ma non c'è alcun obbligo per quanto riguarda la buona pratica dell'italiano>>. 
Un tacito accordo fissa i tetti massimi di lettura ridicoli per i testi di esame: <<quando un professore assegna più di 150-180 pagine, davanti al mio ufficio c'è la fila di studenti che protesta>>. 



SETTE SU CENTO NON LEGGONO MAI. E TANTI NON NE FANNO MISTERO: <<LEGGERE OGGI NON SERVE>>

Protestano, e poi si sfracellano contro i muri delle sale. Sugli esiti dell'idiosincrasia per la lettura, agenzie private di tutoraggio hanno costruito imperi aziendali, come il CEPU: 10.000 studenti l'anno. 
<<Ci chiedono di aiutarli a passare un esame>>, racconta il responsabile marketing Maurizio Pasquetti, <<ma scopriamo quasi sempre che alla radice c'è la difficoltà o la paura di affrontare testi scritti. Escono da scuole superiori abituate a libri di testo ancora simili a quelli delle elementari, con testi spezzetati, già schematizzati, con tante figure e specchietti: di fronte al terribile "libro bianco" fatto solo di pagine di scrittura continua, restano terrorizzati.>>
<<In Francia e Germania gli atenei organizzano gare di ortografia>>, sospira il professor Serianni. Da noi è difficile perfino recultare iscritti per il laboratorio di scrittura che alcuni Atenei allarmati hanno messo a disposizione degli studenti in debito di lingue. Quello di Modena è affidato al professor Gabriele Pallotti: <<di solito comincio di virgole e apostrofi... >>. 
Pallotti nel cassetto tiene una cartellina di orrori: e-mail, biglietti affissi alle bacheche, <<esito profiquo>>, <<le chiedo una prologa>>, <<attendo subitanearisposta>>. 
Macorregereleasinate non è ancora abbastanza. 
<<Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere>>, spiega. 
<<Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare. Troppi ragazzi escono dalle università sapendo solo trascrivere la propria oralità, ovvero un flusso continuo di idee non ordinate e difficilmente comunicabili. Cioè restano mentalmente analfabeti.>>
Ma se avessero ragione loro? Perché alla fine si scopre che il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base. E non perché non si accorgano delle deficienze dei loro nuovi assunti. Parlare con Carlo Iannantuono, responsabile delle risorse umane per la filiale italiana Santic, una multinazionale del ramo macchine per cantieri, reduce da una lunga selezione di personale laureato, è come farsi raccontare una serata allo Zelig: <<quelli che se potrei, quelli che s'è laureato per il rotolo della cuffia (e si vede), quello che glie lo dico così, an fasàn (e io: e du pernìs... ) ...>>. 
Gli analfabeti  conclamati, calcola sono solo un 3 o 4 %, ma molti altri non sembrano pienamente padroni delle loro parole. E lei li assume lo stesso? 
<<Dipende>> si fa serio <<noi cerchiamo bravi venditori. Quello che deve discutere col dirigente della SNAM è meglio che sappia i congiuntivi. A quello che deve convincere un capo cantiere della TAV Force, serve di più: un buon paio di stivali di gomma>>. 
<<Non c'è alcuna sanzione sociale verso l'analfabetismo con laurea>>, commenta con sconforto Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. Forse perché non si riconoscono immediatamente, si mascherano bene da alfabetizzati. 
<<Fino a cinquant'anni fa, l'incompetenza linguistica era palese: otto italiani su dieci usavano ancora il dialetto. Oggi il 95% degli italiani parla italiano. Ma che italiano è? Solo in apparenza parliamo tutti la stessa lingua. Quando si prende in mano una penna, però, carta canta, e le stonature si sentono>>. 
Non è una questione di stile: l'analfabetismo laureato può fare danni concreti.
<<Ci sono guasti immediati come questo. Ci sono guasti a medio e lungo termine,  e ben più pericolosi. Chi non legge smette anche di studiare. In Italia solo un 20% di quadri segue i corsi di aggiornamento: quattro volte meno della media europea. Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un paese, molto più di un crollo della borsa>>. 
Chi parla male pensa male e vive male: è ormai un aforisma quella battuta di Nanni Moretti. Se pensa male anche solo un quinto della elite dirigente, per De Mauro è un'emergenza nazionale: <<per il futuro economico del nostro Paese, migliorare l'Italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti. E non lo prenda come un paradosso>>. 




Di Michele Smargiassi





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1 commento:

  1. Eh, articolo e considerazioni riflettono il mio sconforto. Qualche mese fa un'amica mi ha chiesto di dare un'occhiata alla sua tesi di laurea e... un casino. Congiuntivi sbagliati, sintassi sballata, salti logici incomprensibili... eppure è una che ha sempre letto.
    E qualche anno fa a mia sorella è stato chiesto di correggere una tesi. Era sconvolta. Mi chiamava dall'altra stanza per mostrarmi orrori ortografici e di grammatica più che gravi, da scuola elementare. Come abbiamo fatto ad arrivare a questi punti? Mah...

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