Ti racconto una storia... Il viaggio degli amori perduti




Buongiorno a tutti! Ho pensato che sarebbe stato carino pubblicare alcuni dei racconti che ho scritto anche in questo blog. Se non avete nulla da fare, se non sapete come passare il tempo, se vi piace sognare, o se semplicemente siete curiose di sapere cosa faccio quando mi annoio, questo è il post che fa per voi. Buona lettura ^^ 





Italia – magnifico paese! | Per te l'anima geme e si strugge... 
(Nikolaj Vasil'evič Gogol')










Tacco, punta, tacco, punta. Taccopuntataccopuntataccopunta. 
Abbandonandosi a una risata euforica, Josephine fece ondeggiare sensualmente i fianchi, come il suo amico italiano le aveva così diligentemente insegnato. Jo aveva presto scoperto che ballare era uno dei passatempi preferiti degli abitanti del bel paese. Non si era mai divertita tanto. 
I musicisti intonarono un mambo. Il pubblico applaudì: Jo vide alcuni signori afferrare le mogli per le sottane e trascinarle sulla pista. Le donne agitarono il capo, divertite, lasciandosi contagiare dalla loro esuberanza. 
Taccopuntataccopuntataccopunta.
Una bella italiana coi folti capelli scuri emise una risatina squillante, si fece strada fino al centro della pista e cominciò a muovere i piedi a ritmo di mambo. Si sollevò lentamente le gonne facendole aderire alle cosce tornite e uno scroscio di applausi si riversò sulla piazza. 
Ehi! mambo, mambo italiano ehi! mambo, mambo italiano-
Josephine conosceva quella canzone, l'ascoltava sempre quando le fitte di malinconia le trafiggevano il petto, mozzandole il respiro. E allora lei accendeva il giradischi e scacciava la saudade lasciando che la ruvida voce del cantante la distraesse dai suoi pensieri. 
Carosone si era dopotutto rivelato un ottimo anestetico. E lei adorava ballare. 
Un ragazzino dagli arroganti capelli rossi le si avvicinò, guardandola con occhi timidi, imploranti. Dietro di lui, una donna con la chioma dello stesso colore la osservava ansiosamente. Josephine non ne intuì il motivo finché non la vide accarezzarsi il ventre arrotondato con la punta delle dita. Un sorriso intenerito le sfiorò le labbra. La donna avrebbe voluto ballare col figlio -che aveva l'aria tremendamente annoiata- ma per ovvi motivi non poteva. Jo accontentò il bambino e gli fece fare una giravolta, poi un'altra e un'altra ancora. Il ragazzino rise e rise e rise, e lei con lui.
Il mambo continuava.
Tacco, punta, tacco, punta. Taccopuntataccopunta.
...non è calabrese, non è un mambo piemontese. 
L'Italia era un paese di sogni e speranze e allegria. Avrebbe voluto viverci per sempre. Non voleva tornare nella sua fredda Inghilterra, dove tutti erano sempre così alteri, composti, imperturbabili.  In Inghilterra non potevi ballare col primo venuto, non potevi parlare con un uomo senza prima essergli stata presentata, non potevi agitare i fianchi e indossare gli aderenti grembiulini a fiori che le donne italiane sembravano considerare parte della loro quotidianità. 
In Inghilterra non potevi lasciare che un ragazzo ti invitasse a ballare un mambo; in Inghilterra neanche sapevano cos'era, un mambo! 
In Inghilterra una signorina a modo non fumava, non imprecava, non parlava il dialetto. In Inghilterra non c'era mai il sole, il cielo era ammantato da perpetue nuvole grigiastre e la pioggia picchettava costantemente le affollate strade cittadine. In Inghilterra il cibo era così insipido; solo dopo aver mangiato un vero piatto di pasta e fasule si era accorta di quanto la cucina italiana fosse preferibile alle raffinate fettine di vitello inglesi, alle zuppe e al biancomangiare, al té e alle minestre che le sue impettite cameriere le servivano per cena. 
In Italia l'ozio era il padre dei vizi; in Inghilterra un gentiluomo non conosceva il significato della parola lavoro. E se la conosceva non era un gentiluomo. 
Oh, sì. Avrebbe voluto viverci per sempre, in quel meraviglioso paese in cui era fuggita per non lasciare che il passato la travolgesse. 
Taccopuntataccopuntataccopunta.
"Bella donna!" Giuseppe la raggiunse e la afferrò per la vita, voltandola verso di sé. Jo sentì la voce del bambino lanciare un'accalorata bestemmia. La madre gli gridò qualcosa, lo raggiunse e lo afferrò per le orecchie, trascinandolo via. Ma lei non ci fece caso.  Giuseppe era un gran bel ragazzo, aveva splendidi occhi castani e capelli dello stesso colore, era alto, un metro e novanta di maschia perfezione. 
La chiamava “bella donna” perché in effetti in quello strano paese Jo era considerata bella. Una bellezza particolare, che salta subito all'occhio. Una bellezza che attira l'attenzione. Nel suo paese natale Josephine era universalmente riconosciuta come una ragazza piacente. Un complimento a metà, poiché di ragazze piacenti ne era pieno il mondo e nessuno l'aveva mai guardata con occhi sinceramente ammirati. Jo era così tristemente normale, con i suoi grandi occhi azzurri e i serici capelli biondi, e nessuno l'aveva apprezzata quanto quei forti, vitali ragazzi italiani che ogni volta che la vedevano sembravano impazzire per i suoi lineamenti nordici, per le sue labbra sottili, il seno piccolo, i fianchi stretti. Se in Inghilterra era stata una delle tante, una biondaqualsiasi, nel bel paese tutti la ammiravano e tutti volevano ballare con lei, tutti chiedevano la sua opinione -senza necessariamente ascoltarla-, tutti volevano conoscerla, essere sua amica. E Jo si era sentita per la prima volta unica, speciale, insostituibile.  
Ma dell'adulazione di Giuseppe non se ne faceva nulla. A dire il vero era qualcun altro a interessarla -qualcuno che proprio in quel momento la stava guardando con ridenti occhi neri, qualcuno che, per la priva volta dopo tanto tempo, era finalmente riuscito a trasmetterle quel brivido di eccitazione, quel senso di vulnerabilità che un solo uomo prima di lui le aveva fatto provare. I maliziosi occhi neri di Matteo si immersero in quelli di lei; Josephine sorrise e tremò e arrossì, sobbalzò fra le braccia di Giuseppe, trasecolò persino e si sentì rinata, come se la vita le avesse finalmente restituito un'altra occasione di amare e di abbandonarsi al calore di altri occhi, alla morbidezza di altre mani, alla solidità di altre braccia che le impedivano di precipitare nel baratro. 
Braccia che la trascinarono in un mambo sfrenato - tacco, punta, tacco, punta, taccopuntataccopuntataccopunta. Labbra che le sfiorarono il lobo di un orecchio sussurrandole parole incomprensibili; ma quelle parole nascevano dal cuore di chi le aveva pronunciate e lei non faticò a sentirle né ad afferrarne il significato.
Il tempo scorreva e lei rideva e vorticava fra le braccia di Matteo, ignorando gli sguardi offesi di Giuseppe, i mormorii complici degli spettatori, ignorando persino se stessa. Le bastava incontrare quegli occhi per dimenticarsi del mondo e della vita e del futuro, del presente e del passato, di ciò che si era lasciata alle spalle, del vuoto che aveva tante volte cercato di riempire ma che solo quando era approdata in quella terra baciata dal sole si era attenuato. E allora Jo capì che era venuto il momento di affrontare un'ultima volta l'oblio del passato -era venuto il momento di sconfiggerlo, quell' oblio, perché l'essere umano è una creatura fatta per amare e lei non si sarebbe lasciata sfuggire quella seconda, preziosa, inaspettata occasione. 
Iniziò a ricordare.


Londra, tre anni prima.

"La sposerò"
La sua voce. Cosa non avrebbe fatto per la sua voce. Cosa non avrebbe sacrificato. La sua voce la riscaldava. Ammaliandola. Josephine pensò che per quella voce avrebbe potuto morire. Sarebbe potuta bruciare tra le fiamme dell'inferno, arsa dalla passione, consumata dal rimpianto, dilaniata dalla rabbia, avvelenata dal risentimento. Sopraffatta dal desiderio. E non avrebbe rinnegato un solo istante passato in sua compagnia. Il ricordo di quei baci, di quelle carezze, di quegli sguardi, di quei gemiti sussurrati nell'oscurità l'avrebbe perseguitata per sempre. Sino alla fine dei suoi giorni. La sua voce era musica, la sua voce era poesia, la sua voce era l'abbraccio di una madre che stringe al petto il figlio appena nato. La sua voce era il canto proibito di una storia che racconta di amore e passione e libertà, di voglia di vivere, di giovinezza, di dolci risate inghiottite dallo sciabordio delle onde, risate di bambini che giocano a rincorrersi a piedi nudi sulla spiaggia.  
Avrebbe ucciso per quella voce. 
Lui non sembrava pensarla allo stesso modo. 
Josephine e Arethon erano nati per stare insieme. 
Lei era convinta dell'amore che nutrivano l'una per l'altro e niente le avrebbe fatto cambiare idea. Si conoscevano da quando neanche si reggevano sulle proprie gambe. Erano stati compagni di culla. Le loro famiglie erano amiche da sempre e Jo era cresciuta sentendo suo padre sospirare con aria afflitta: avrebbe così tanto desiderato un figlio maschio!. 
Un figlio come Arethon. 
Il padre di Josephine era molto fiero di Arethon: lo dipingeva come un eroe, e Jo aveva finito per convincersi che sì, Arethon era davvero un eroe,  un giorno l'avrebbe sposata e avrebbe fatto l'amore con lei. Avrebbero avuto dei bambini e una bella casa e lei avrebbe accudito i suoi figli e lui sarebbe diventato avvocato e tanti altri progetti. Progetti per il futuro -progetti di una vita inseme- una vita felice, senza insidie, una vita in cui la serenità viene dalle cose semplici, perché loro lo erano, gente semplice, e Jo non avrebbe potuto desiderare di più. 
Arethon era davvero un principe azzurro. Era bello e forte e la proteggeva, la adulava, la vezzeggiava. A tredici anni si erano scambiati il primo bacio. A sedici Arethon aveva perso la verginità con una ricca vedova della contea vicina e Jo lo aveva scoperto e aveva pianto e si era infuriata e lo aveva picchiato sul petto, non gli aveva parlato per un mese, poi non aveva più resistito, Arethon le mancava -Dio, quanto le mancava!, ed era tornato tutto come prima. A diciassette anni Arethon le aveva toccato il sedere e lei era arrossita lo aveva sgridato gli aveva tenuto il broncio lo aveva perdonato. A diciotto anni Jo e Arethon avevano fatto l'amore: era stata un'esperienza scomoda e impacciata per entrambi, soprattutto per Jo. Rotolarsi in un fienile vecchio e sporco non le era piaciuto. La volta dopo lo avevano fatto in un letto e nemmeno allora le era piaciuto. La terza, finalmente, aveva raggiunto l'appagamento.  C'erano state una quarta una quinta una sesta una settima volta, un'ottava e poi ancora, ancora e ancora.  
Avevano fatto l'amore sotto un cielo stellato, sotto la pioggia, fra le lussureggianti colline inglesi, nel letto dei genitori di lui, nel letto dei genitori di lei. Le mani di Arethon le avevano coperto la bocca per impedirle di urlare, quelle di Jo gli avevano graffiato la schiena; Josephine si era presto convinta che lui l'avrebbe sposata. Avevano tante cose in comune e le loro famiglie erano amiche: Jo era una buona pasta di ragazza, sempre allegra e con grandi occhi vispi. Cosa avrebbe potuto impedire una loro ipotetica unione?
Niente. 
Assolutamente niente.
Erano nati per stare insieme. 

L'impedimento si presentò sotto forma di un'intrepida chioma ramata, occhi verdi come smeraldi, due seni abbondanti -molto più abbondanti di quelli di Jo-, fianchi stretti e gambe incredibilmente lunghe. E soprattutto -soprattutto!- in un patrimonio di tremila sterline l'anno che Mr Groshman era pronto a versare a chiunque rendesse felice la sua adorata figliuola.  Poiché Arethon non era privo di ambizioni e non era neanche immune a una bellezza insolita, così diversa dalle ormai familiari attrattive di Jo. 
La rossa si chiamava Eva.
(Questa Autrice pensa che il nome della fanciulla sia più che sufficiente a farvi intuire cosa accadde dopo.)
Ebbene sì, il nostro Adamo cedette alla tentazione e colse la mela. Ma Eva non era una sciocca e Arethon possedeva un'indole piuttosto venale - indole di cui Jo non si era mai curata ma si sa, l'amore è cieco e chi più di una ragazza sedotta e abbandonata concorderebbe con queste parole? 

"La sposerò" ripetè Arethon. Jo non si sorprese della sua esclamazione. Da settimane non la degnava più di uno sguardo. Era tutto preso dalla rossa, quella diabolica rossa che gliel'aveva portato via.  Pure, questa consapevolezza non bastò ad attenuare il dolore che le scavò il petto. Una voragine. Non avrebbe potuto descrivere con una parola più adatta il vuoto che la colmava.  Le lacrime le appannarono gli occhi; quelli di Arethon erano più risoluti che mai. 
Non si scusò di averla illusa, di averle calpestato il cuore. Sebbene il rimorso gli comparisse a chiare lettere sul viso, Arethon capì che non esistevano parole più penose per liberarsi della donna che per così tanto tempo aveva  amato e che aveva  deciso di abbandonare. Avrebbe rinunciato a lei, avrebbe calpestato i sogni di Jo per realizzare i propri. 
Non le avrebbe mostrato compassione, non avrebbe calpestato anche la sua dignità. La dignità era tutto ciò che le rimaneva.

Passarono anni da quel giorno. Due lunghi, interminabili anni scanditi dalle solite cose.
Jo continuò a vivere la sua vita: rideva con le amiche e civettava coi contadini, mangiava insipido pane inglese e partecipava a balli e soirèe, scherzava coi suoi genitori e malmenava le sorelle più piccole, si acconciava i capelli li arricciava li pettinava si truccava e sorrideva alla propria immagine riflessa nel grande specchio della sua stanza. Il dolore non scomparve mai del tutto. Una parte di lei non voleva liberarsene: non voleva liberarsi di Arethon, dell'Arethon sposato come dell'Arethon ragazzino che la rincorreva fra le distese di girasoli, dell'Arethon padre e dell'Arethon che faceva a pugni coi marmocchi del paese, dell'Arethon riccoproprietarioterriero e dell'Arethon che era già tanto se riusciva a trovare una nicchia isolata in cui potessero fare l'amore. 
Un giorno Josephine si stancò dell'insipido pane inglese e decise di partire. 

Un mese dopo salì su un treno diretto in Scozia. Visitò l'Irlanda e tornò indietro, andò in Francia in Spagna in Germania. Finalmente libera. I fantasmi del passato scomparvero. Il viaggio degli amori perduti si rivelò il viaggio della speranza, il viaggio di una vita nuova -una vita migliore- e le sue sfortune sembrarono così misere se paragonate alla bellezza delle rocce e delle montagne*, del folklore contadino, delle grandi città, dei cibi esotici, delle bancarelle, di visi estranei che le divennero presto familiari, di lingue sconosciute, di musei e palazzi e novità. L'Italia divenne la sua terra promessa. Ad Avellino trovò l'amore. 

Tic, tac. Tic, tac. Tictactictactictac. 
Josephine spalancò gli occhi. Mugolò e si rigirò fra le coperte, guardò l'ora, erano le due del mattino, chi poteva mai  essere? 
La festa era finita da un pezzo, lei e Matteo avevano ballato il tango avevano bevuto si erano sorrisi, lui le aveva baciato una guancia, lei glielo aveva lasciato fare, era la prima persona di cui si fidava da tanto di quel tempo che all'inizio non si era capacitata di come avesse potuto lasciarsi sfiorare da un uomo che non fosse Arethon. Ma Arethon faceva parte del passato, lui e la rossa che glielo aveva portato via. Adesso c'era Matteo, coi suoi begli occhi neri; Matteo che aveva una risata così musicale, Matteo che aveva le mani ruvide, inasprite dal lavoro nei campi, Matteo che aveva un profumo così diverso da quello del suo primo amore. Matteo che...
"Jo! Josephine! Jo-ohsephine!"
Era lui. Matteo.
Jo sorrise e si scostò le lenzuola dal corpo, rabbrividì, l'aria era fredda, più fredda del solito, ma lei non ci fece caso. Si lasciò trascinare dall'impazienza -animo!, soleva ripetere Matteo quando la vedeva un po' giù di morale- e si affacciò alla finestra. Eccolo lì, coi suoi grandi occhi scuri, la pelle cotta dal sole, le labbra maliziose, la chioma corvina... era così perfetto. Probabilmente fin troppo perfetto per lei. 
"Jo!" gridò lui "Sei pronta sì o no? Dico, è mezz'ora che busso!"
Jo tralasciò di specificare che egli non aveva semplicemente bussato: ci mancava poco che sfondasse la finestra!. Assottigliò lo sguardo e lo immerse in quello di lui, limpido e fiducioso. 
"Cosa ci fai qui? A quest'ora, poi?" s'inalberò scherzosamente "Non ti hanno insegnato come si tratta una signora, mascalzone bifolco che non sei altro?"
Matteo rimase impassibile dondolando i talloni avanti e indietro.
"Allora?" insistette Jo. 
Matteo tacque.
Spazientita, Jo decise che era meglio chiudere la finestra e lasciarlo gelare dabbasso, chissene frega se si prende un raffreddore, è lui il matto, mica io!.
Matteo sbottò precipitosamente "Ma come, non ricordi? Ché parlavo al vento ieri sera?"
Jo tornò a guardarlo, dubbiosa. 
Matteo sorrise, un sorriso lento, insinuante, irresistibile. 
Arethon non mi ha mai sorriso in quel modo. 
Una fossetta gli solcò il mento, ingentilendo i suoi lineamenti induriti dalla fatica.
Jo sbuffò, Matteo si precipitò a esclamare:
"Ti ho detto che ti devo sposare, che dobbiamo fare la fuitina. Dico, valgono così poco le mie promesse?"
Jo spalancò gli occhi e comprese. Una violenta emozione le riempì il petto. Capì che era arrivato il momento di scegliere fra presente e passato, fra l'amore nuovo e l'amore perduto. Un amore che era ormai divenuto una mera illusione, l'ideale imperfetto del sentimento che pretendeva dalla vita.  
Sorridendo divertita, gettò un paio di gonne e una camicetta nella valigia, nascose una banconota da duemila lire nella tasca della sottana e si vestì. Scese di corsa le scale e fu fra le braccia di lui; il resto smise di esistere e lei non pensò ad altro che a lui, a loro, a ciò che erano e che sarebbero divenuti, al loro futuro, ai loro figli, alla loro famiglia, al loro amore.  
Fece la sua scelta. 
Lo rese felice.
Ma soprattutto si rese felice. 
Come disse un vecchio saggio, tutto è bene quel che finisce bene. E chi vivrà vedrà. 







*le sue sfortune sembrarono così misere se paragonate alla bellezza delle rocce e delle montagne... frase ispirata al celebre Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen 

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