Parole di carta: i giorni dell'abbandono di Elena Ferrante





Signori e signore, a rieccoci con un nuovo appuntamento di Parole di carta, la rubrica chiacchierona che più chiacchierona non si può. Le regole sono semplici:
-prendi il libro a te più vicino
-aprilo in una pagina a caso
-condividi con noi la prima frase su cui ti cade l'occhio
Questa settimana Lea è in vacanza, quindi vi tocca sopportare la sottoscritta. So che pensavate di esservi liberate di me (almeno per quanto riguarda il martedì) ma siate fiduciosi, Lea starà via pochissimo, giusto il tempo di dimenticarsi la traumatizzante esperienza di avermi conosciuta *ammicca*. Ovviamente scherzo, Lea... forse. O forse no. :P
E comunque. 
L'altro ieri ho deciso di rileggere quello che a mio parere è un libro con i contro fiocchi. I giorni dell'abbandono  non è un romanzo  particolarmente originale, ma Elena Ferrante riesce, grazie alla potenza del suo stile, a dare voce a una protagonista intensa, sfaccettata e intrigante. Dopo aver letto questo libro ho sentito che non sarei più stata la stessa. Olga è una donna sola, arrabbiata, vendicativa; quando il marito la lascia qualcosa si spezza dentro di lei. E il lettore prova la stessa straziante sensazione. Persino lo stile dell'autrice ne risente. E' come se a un certo punto, nel momento in cui Olga viene abbandonata, una ferocia inaudita si scatenasse nelle parole, le frasi diventano più brevi, secche e spezzettate, il linguaggio più crudo, come a sottolineare l'odio, la frustrazione e l'oblio a cui la protagonista decide di lasciarsi andare. 
Questa piccola recensione ci voleva, considerando che questo è uno dei miei libri preferiti e che, vergogna delle vergogne, non ve ne ho mai parlato. 
Ma bando alle ciance, vi copio-incollo uno spezzone di pagina 96





Gianni e Ilaria non migliorarono dopo quella avventura, anzi seguitarono a farmi scontare colpe torbide che si immaginavano, ma che non avevo commesso, erano solo sogni neri dell'infanzia. Intanto, con una torsione improvvisa e difficilmente spiegabile, smisero di considerare Carrano un nemico - l'assassino di Otto, lo chiamavano - e adesso, quando lo incontravamo per le scale, lo salutavano sempre con una sorta di cameratismo, come se fosse un compagno di giochi. Lui tendeva a rispondere con strizzatine d'occhio un po' patetiche o cenni contenuti della mano. Era come se temesse di eccedere, evidentemente non voleva urtarmi, ma i bambini pretendevano di più, non si accontentavano. 
«Ciao, Aldo» gli gridava Gianni, e non la smetteva se Carrano non si decideva a borbottare a testa bassa: ciao, Gianni. 
Io dopo strattonavo mio figlio e gli dicevo: 
«Cos'è tutta questa confidenza? Devi essere più educato». 
Ma lui mi ignorava, attaccava con richieste tipo: mi voglio fare il buco all'orecchio, voglio mettere l'orecchino, domani mi tingo i capelli di verde. 
La domenica - le volte che Mario non poteva tenerseli, e non erano poche - le ore in casa passavano piene di nervosismi, rimproveri, scenate. Allora li portavo nel parco e lì facevano un numero infinito di giri in giostra, mentre l'autunno soffiava via foglie gialle e rosse a stormi, scaraventandole sul selciato dei viali o abbandonandole sull'acqua del Po. Ma a volte, specie quando le domeniche erano umide e nebbiose, andavamo in centro, loro si inseguivano intorno alle fontane che sprizzavano getti bianchi dalla pavimentazione, io girellavo svogliatamente tenendo a bada il ronzio di immagini mosse e voci accavallate che nei momenti di sfinimento ancora mi tornavano nella testa. In certe occasioni che mi parevano particolarmente allarmanti cercavo di captare voci meridionali sotto l'accento torinese, cosa che mi procurava un tenero inganno di infanzia, un'impressione di passato, di anni accumulati, di distanza giusta per le memorie."
I giorni dell'abbandono, Elena Ferrante 


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